MOSTRA L'ITALIA DEL RINASCIMENTO. LO SPLENDORE DELLA MAIOLICA
Palazzo Madama - Sala Senato Piazza Castello - Torino
13 giugno - 14 ottobre 2019
Torino, 12 Giugno 2019
Torino non sa «vendere» le proprie mostre. Hai le maioliche del ‘500 e non sai comunicarlo
La narrazione oggi è altro che articoli o cartelloni pubblicitari. Per convincere chi non è solito visitar mostre serve lavorare sull’emozione. È roba da esperti, ma costano. Per i nostri musei la questione non è all’ordine del giorno. L’esempio di Palazzo Madama
di Gabriele Ferraris.
Torino non sa «vendere» le proprie mostre. Hai le maioliche del cinquecento e non sai comunicarlo Una delle maioliche in mostra a Torinoshadow.
La mostra delle maioliche rinascimentali a Palazzo Madama non è soltanto una «bella mostra». È un Evento vero — mica di quelli che ci spacciano per eventi e in realtà sono sagre di paese imbellettate. Duecento capolavori in gran parte provenienti dalle più ricche e segrete collezioni private al globo, capolavori che o li vedi stavolta o non li vedi mai più; e un curatore d’eccezione, Timothy Wilson, forse il più stimato studioso della materia a livello mondiale. Eppure temo che le maioliche a Palazzo Madama non richiameranno folle di visitatori. Così come altre recenti mostre dei nostri musei, che hanno deluso le aspettative.
E non parlo di mostre per soli intenditori, come potrebbe sembrare — e non è — quella delle maioliche. OK, alle mostre blockbuster degli Impressionisti ci abbiamo messo una pietra sopra: ma Van Dyck ai Musei Reali, ragazzi, era Van Dyck, mica l’ultimo sconosciuto. Meritava ben più di 60 mila presenze. Lo stesso vale per le Madame Reali a Palazzo Madama, o il Guttuso della Gam, chiuse entrambe a quota 55 mila. Persino Leonardo sta facendo fatica. Perché accade? Notate, si tratta di mostre di pregio. E di prezzo, talora. Van Dyck, per dire, è costata un milione e mezzo di euro, Guttuso un milione. Il problema quindi non sono i soldi. Il problema è l’idea della mostra che arriva al pubblico. La narrazione che se ne fa. Gran parte dei musei torinesi concepisce ancora la comunicazione secondo criteri novecenteschi.
L’obiettivo più agognato dall’ufficio stampa sono le famigerate «uscite sul nazionale» (ovvero articoli sulle edizioni nazionali delle principali testate) che i direttori invocano a garanzia assoluta di visibilità e successo per il loro museo o la loro mostra. Come se l’efficacia del messaggio, al giorno d’oggi, si misurasse in centimetri quadrati di carta stampata. Quanto alla pubblicità, meglio non parlarne: investimenti minimi, qualche spazio sui quotidiani locali, manifesti al risparmio. Tanto passano le casse del convento, tanto si fa. Ma la narrazione — anche di una mostra, di un museo — oggi è altro che un articolo sul giornale o un cartellone pubblicitario. È la costruzione di «una certa idea di», di un «sentiment», un «ambiente». Pensate alla pubblicità vera, quella fatta dai veri professionisti: nel Novecento vendeva il prodotto; oggi vende l’emozione. Tu devi comperare quest’automobile perché ti rende libero e avventuroso, non perché va da zero a cento in tot secondi. Vale pure per il «prodotto» culturale. Non basta far sapere che c’è quella determinata mostra scrivendolo sui media: chi non è già interessato e sta benissimo così, chi non ha l’abitudine di visitare mostre, non cambierà atteggiamento se per caso leggerà sul giornale, o più probabilmente in rete, che c’è una bella mostra. Ecco la vera sfida della «partecipazione culturale», anche detta «accessibilità della cultura», di cui i politicanti blaterano a vanvera senza neanche capire quello che blaterano.
È la sfida della narrazione: convincere ad andare al museo chi non ha mai contemplato l’ipotesi di metterci piede. Indurre chi vive in altre città a salire in macchina, o su un treno, o un aereo, o un calesse, e venire a Torino per vedere quella mostra «imperdibile». Si tratta, a dirla terra terra, di far passare l’idea che visitare un dato museo, una data mostra, è un’esperienza irrinunciabile. Un’emozione, appunto. Ma creare un’emozione non è il compito dell’ufficio stampa, che fa un altro mestiere e semmai tenterà di convincere i giornalisti a raccontare quell’emozione; vasto e ambizioso programma, confinato comunque al ristretto ambito dei lettori di giornali. Né ci si può aspettare granché dal giovanotto (o giovanotta) di belle speranze pagato quattro soldi e promosso «social manager» senza capire che tra l’hashtag geniale e quello fesso, fra il trend topic e l’epic fail, la linea di confine è risicata, e gli improvvisatori crollano. E no, non fatevi venire strane idee: #nonsolococci per la mostra delle maioliche non sarebbe un hashtag geniale. Creare un’emozione è un lavoro da professionisti esperti e specializzati, di alto profilo. Ma i soldi per pagarli non ci sono. Quindi per i nostri poverissimi musei la questione non è all’ordine del giorno. Si improvvisa. Si va a orecchio. Eppure i musei torinesi lavorano sodo, e a volte riescono a fare ottime mostre che valgono più di quel che costano: dunque meriterebbero migliori fortune. Qualcuno l’ha spiegato già duemila anni fa: non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa.
Foto Renato Valterza
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